Perdere il reale per ridefinire il reale

04/09/2009
Conversazione tra Loris Cecchini e Alessandro Castiglioni
Perdere il reale per ridefinire il reale
Conversazione tra Loris Cecchini e Alessandro Castiglioni
4 settembre 2009

Alessandro Castiglioni: Credo Loris, studiando il percorso che ha caratterizzato la tua
ricerca dagli anni Novanta in poi, risulti subito evidente come il tuo linguaggio abbia avuto
una costante e coerente ridefinizione, passando, nel tempo, dalla fotografia alla scultura
(intesa nella sua declinazione più oggettuale) all’installazione e l’architettura. Vorrei capire
a quali istanze e ricerche ha corrisposto questa evoluzione.

Loris Cecchini: Rileggendo il mio percorso credo che principalmente si sia caratterizzato per il
tentativo di esplicitare una precisa attitudine, in modo però libero da condizionamenti di tecniche,
materiali o stili. L’elemento di continuità tra i diversi progetti sviluppati negli anni è sempre stato
legato ad un’idea di realtà fisica, tridimensionale, una realtà che pesa e che ha un corpo;
contemporaneamente è sempre stato presente un diretto legame con la sua virtualizzazione. Questa
traccia di fondo mette dunque in relazione da una parte la realtà, dall’altra la curiosità e la poesia. Il
mio lavoro sta sempre in questo galleggiamento di meraviglia continua tra la materia fisica e quella
più astratta, rielaborata in una distanza. La distanza, dalle fotografie agli involucri, è un tema
importante, poiché si caratterizza sempre come una divario del mondo che io poi ho cercato di
ricostruire.

A.C.: Una significativa declinazione di questo percorso tra distanza e ricostruzione,
emerge in modo particolare nel passaggio da installazioni dal carattere abitativo (come gli
involucri) ad una dimensione più mentale e progettuale, attraverso quella che tu stesso
chiami “atomizzazione e deformazione di superfici e forme”. In questo senso oggi alla
GAM è possibile vedere bene questo passaggio attraverso il confronto tra Monologue
Patterns (2004) installazione permanente di proprietà del museo e Steelorbitacocoons
(2009), opera presentata per la mostra The Group Show.

L.C.: Io effettivamente sono partito da questi gusci generativi, queste costruzioni e abitazioni a
distanza (come quella di Gallarate) per la costruzione di un nuovo percorso. Quell’involucro è
diventato una sorta di seme che ha dato luogo ad una strana proliferazione. Intendo dire che il mio
lavoro è un’elaborazione continua: le fotografie sono luoghi d’invenzione, le repliche di oggetti
sono prodotti in gomma che metaforicamente parlano di un’incapacità della realtà di sostenersi;
credo che poi queste considerazioni siano esplose in questa parcellizzazione del reale. Allora sono
nati una serie di lavori caratterizzati dalla ripetizione di strutture modulari. Questa ricerca nasce da
una passione per la scienza, per la morfologia naturale e subito dopo un’astrazione da essa, che si
configura come una rielaborazione grafica della pura composizione matematica. Quindi disegnando
moduli, componendoli insieme, produco un eccesso visuale, utile a creare un’immagine metaforica.
Steelorbitacocoons, è poi un lavoro di sperimentazione sul materiale, l’acciaio, che mi sembrava un
materiale interessante poiché da luogo a una strana forma tra l’animale e il vegetale.

A.C.: In questo senso cambia anche il rapporto con la natura: dove prima vi era una
relazione immersiva ora invece credo tu abbia costruito un discorso più analitico e
scientifico; come si sono spostati i tuoi interessi?

L.C.: Il rapporto con la natura è diventato strutturale perché ho sempre cercato di fare scultura. Sia
quando ho progettato gli involucri, che il pubblico direttamente può praticare, sia che si tratti di
forme atomizzate. La forma atomizzata mi dava la possibilità di espandere progettualmente l’idea
dell’intervento e sta in relazione con la natura in senso immaginifico. Cloudless, per esempio,
sembra una nuvola ma in realtà è un aggregato, cambia forma continuamente. Io cercavo una forma
sculturale che potesse variare come le piante. Progetto strutture modulari sia come passione per i
frattali ma anche per riproporre la natura nella sua dimensione di organismo che si auto organizza,
si espande e si contrae. Questo in termini di libertà mi permette una progettualità che si avvicina di
nuovo all’architettura e a pratiche diverse da quella artistica e si ricollega ad una progettazione
diffusa a livello internazione, basti pensare al lavoro di Olafur Eliasson o Ernesto Neto.

A.C.:Quanto la dimensione dell’utopia è importante nel tuo lavoro? Ricordo come in
Monologue Patterns tra i testi lasciati sull’albero vi erano “Le città invisibili” di Italo Calvino,
saggi di Wim Wenders e Jean Baudrillard, tu stesso in un recente intervento parli di questa
dimensione in cui la perdita della realtà ridefinisce il reale, dove gli “spazi sono legati alla
deformazione reale del sogno, luoghi tra delirio e progettualità, tra astrazione e
praticabilità, tra sospensione e materialità1”, vera e propria utopia quindi.

L.C.: La mia riflessione sull’utopia è nata insieme alla progettazione di repliche di oggetti, basati
sulla decostruzione del reale e la sua successiva disfunzione, una sorta di presenza fantasmatica. Poi
ho cercato di ricostruire il reale. In questo senso una visione utopica era per me congeniale per
continuare a fare scultura, legata ancora alla ridefinizione del reale e alla meraviglia. La dimensione
utopica è legata poi all’idea di prototipo. Penso a molti artisti come Marjetica Potrc o Yona
Friedman: il loro è un lavoro che fa leva sulla trasfigurazione di un elemento familiare, che in fin
dei conti per me è l’involucro come abitazione.

A.C.:E questo posizione come cambia la relazione tra opera e pubblico?

L.C.:Io credo che l’artista sia in grado di progettare delle condizioni che poi vengono completate
dallo spettatore, anche solo attraverso l’osservazione o l’attraversamento. Sono condizioni visive e
dunque psicologiche. L’arte in qualsiasi sua forma (fisica o metaforica) diviene ambiente
immersivo, se praticata con attenzione. Ciò che attraverso il mio lavoro vorrei fare è dunque riuscire
a catturare questo sguardo, spesso abituato alla superficialità e la velocità, per dedicargli una nuova
dimensione spaziale e temporale.




1
Loris Cecchini, Dotsandloops, Skira, Milano, 2009, p.209. Catalogo edito in occasione della mostra presso il Centro
per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato, 4 aprile – 2 agosto 2009.